Cosa dice la sentenza Bosman, e cosa è cambiato 20 anni dopo
Il 15 dicembre 1995, esattamente 20 anni fa, la Corte di Giustizia Europea pronunciò la “sentenza Bosman”, dando ragione al centrocampista che aveva fatto causa al Liegi, alla Federcalcio Belga e alla Uefa.
Jean Marc Bosman era un giocatore dell’RFC Liegi. A fronte della richiesta di trasferirsi al Dunkerque in Francia la società belga rifiutò il trasferimento non considerando sufficiente la contropartita in denaro offerta. Nel frattempo il suo contratto era scaduto e Bosman finì fuori rosa a ingaggio ridotto.
Da qui partì la sua causa che presentò alla Corte di giustizia dell’UE in Lussemburgo un caso di “restrizione al commercio” e alla “libera circolazione dei lavoratori” nell’Unione.
Il 15 dicembre 1995 la corte stabilì che il sistema fino ad allora in piedi costituiva una restrizione alla libera circolazione dei lavoratori e ciò era proibito dall’articolo 39 del Trattato di Roma.
A tutti i calciatori dell’Unione Europea fu permesso di trasferirsi gratuitamente alla fine del loro contratto, nel caso di un trasferimento da un club appartenente a una federazione calcistica dell’Unione Europea a un club appartenente ad un’altra federazione calcistica, sempre dell’Unione Europea.
Oltre a questo venne stabilito il diritto a firmare un pre-contratto con un altro club, sempre a parametro zero, negli ultimi sei mesi del proprio accordo con il precedente club. Due passaggi chiave, anche per capire quella che è stata negli ultimi 20 anni l’evoluzione dei rapporti di forza società-calciatori con l’escalation del ruolo dei procuratori passati da semplici intermediari a veri e propri artefici di intere campagne acquisti.
Tutto ciò ha portato tra le altre cose alle recenti dispute sulle TPO (acronimo di Third part ownership), le famose Terze parti ovvero vere e proprie società o fondi di investimento che diventano proprietarie dei cartellini dei calciatori e che ragionando in termini di mercato puntano a massimizzare i propri profitti investendo sui trasferimenti dei loro assistiti.
L’effetto fu anche quello dell’abolizione del tetto al numero di calciatori comunitari nelle rose, proprio per evitare discriminazioni. Fino a quel momento il limite era posto ai “non-nazionali”, o meglio ai giocatori nati al di fuori della federazione di appartenenza del club in cui militavano, che nelle coppe europee potevano essere al massimo tre nella lista dei convocati per una singola partita.
L’unica eccezione era in Gran Bretagna dove le federazioni erano quattro ma i calciatori erano tutti considerati “nazionali”. In Italia il limite venne posto a tre giocatori.
Nel 2001 lo scandalo noto come Passaportopoli sulla naturalizzazione illecita di alcuni calciatori extracomunitari rappresentò il primo caso di falsificazione documentaria nel calcio europeo.
Ad essere condannate con pene esclusivamente pecuniarie ma nessuna penalizzazione sportiva furono diverse società: Inter, Milan Udinese, Lazio, Roma, Sampdoria e Vicenza oltre a 13 calciatori con squalifiche di 6 mesi o 1 anno (tra cui quello più famoso era l’interista Alvaro Recoba, mentre il laziale Juan Sebastian Veron fu subito assolto in primo grado).
Il 21 aprile 2005 52 federazioni aderenti all’UEFA hanno approvato all’unanimità una regola volta ad aumentare il numero di calciatori allenati nel proprio paese.
Che la Sentenza Bosman sarebbe stata rivoluzionaria lo si era capito fin dall’inizio. Ma chiaramente gli effetti diretti e indiretti di quanto pronunciato il 15 dicembre 1995 vanno circoscritti.
Nei giorni scorsi lo stesso Jean Marc Bosman in una intervista alla Gazzetta dello sport ha recitato la parte dell’uomo solo contro il sistema. Ma la sua fu l’iniziativa di un privato cittadino che si difendeva – giustamente – da una ingiustizia, una battaglia ampiamente condivisibile ma rivoluzionaria negli effetti più che nelle intenzioni che erano del tutto – legittimamente – private.
Quel che successe in seguito fu l’effetto della sentenza (spesso – come si è detto per il procuratori – con esiti imprevisti in precedenza) all’interno di una causa che nasceva con un fine individuale. Lascia quindi il tempo che trova la dichiarazione di Bosman che afferma: “La Bosman è nata per ridistribuire le ricchezze a tutti, specialmente ai più poveri, ma ora il guadagno è nelle mani di pochi”.
Fa anche sorridere, Bosman, quando afferma: “Ho letto sui giornali di un’offerta 350 mila euro a settimana a Cristiano Ronaldo, buon per lui, ma almeno spero che sappia che quei soldi li deve in parte al mio sforzo”. Come se non si sapesse quale investimento in termini di immagine rappresenta l’ingaggio di CR7, che ormai è prima che un giocatore un vero e proprio uomo-azienda, a prescindere da quel che la sentenza Bosman stabilì 20 anni fa.
Nel frattempo è pur vero che nelle prime cinque leghe europee gli stipendi dei calciatori si sono moltiplicati per sette, dal miliardo del 1995-96, ai 6,8 miliardi di euro del 2013-2014, con un ritmo di crescita superiore al fatturato (da 2 a 11,3 miliardi). Ma sarebbe veramente miope dire che tutto questo è avvenuto per effetto della liberalizzazione del mercato calciatori. Basti guardare alla mole dei ricavi commerciali dei club per farsi un’idea di una realtà che viene da lontano, fin dalle prime sponsorizzazioni degli anni ’70 (in questo senso la rivoluzione la fece il celebre logo Jagermeister sulle maglie dell’Eintracht Braunschweig, 1973).
Insomma, il calcio era business prima e dopo Bosman e il 15 dicembre 1995 l’escalation era già in atto: le sponsorizzazioni cercavano anche allora nuovi spazi e forme di visibilità e i calciatori erano strapagati in proporzione ai tempi. Anche quando si analizza l’attuale oligarchia che regge il calcio europeo si parla di un sistema le cui regole (scritte e non) sono venute dopo la Bosman, ma non per questo si può dire che siano state in qualche modo dettate o influenzate da quella sentenza.
Forse oggi c’è più consapevolezza di quanto accade, e questo probabilmente è un bene, ma anche qui il ruolo della sentenza Bosman, così importante tuttavia in altri aspetti centrali del mondo del calcio come la circolazione dei calciatori e le norme sul loro tesseramento, risulta onestamente essere circoscritto.